CAMBIAMENTO DEL CLIMA IN ITALIA...

La disintegrazione dei ghiacciai alpini
Il fenomeno in corso sulle Alpi Italiane può essere definito per la sua intensità una rapida “disintegrazione dei ghiacciai”, un vero e proprio “collasso” della criosfera, che si concretizza con l’estinzione dei ghiacciai di minori dimensioni, la frammentazione dei ghiacciai maggiori (per esempio Brenva sul Monte Bianco, Lys sul Monte Rosa, Fellaria Orientale sul Bernina), l’emersione di “finestre” rocciose sempre più ampie, la formazione di numerosi laghi di contatto glaciale e l’incremento della copertura detritica superficiale con la trasformazione dei ghiacciai delle Alpi Italiane dai classici apparati “bianchi” in “ghiacciai neri”, la cui area di ablazione è completamente ricoperta da detrito con spessori superiori ad 1 metro. Quest’ultimo fenomeno è legato anche all’accresciuta dinamica dei versanti in rapporto alla fusione del permafrost e delle lenti di ghiaccio sepolto, che, insieme alle precipitazioni concentrate, determina eventi di crollo in quota (> 3000 metri) anche di cospicua volumetria, talora con esposizione di ghiaccio in nicchia, e l’imbibizione dei depositi glaciali sciolti con la conseguente formazione di colate di fango e di detriti.
Come conseguenze di questa evoluzione si hanno alterazioni dei regimi idrologici che vedranno inizialmente picchi estivi di portata maggiore seguiti, in rapporto alla riduzione delle masse glaciali, da portate sempre più ridotte e da una conseguente maggiore esposizione alle siccità estive.
Se non avverranno nei prossimi decenni sensibili cambiamenti delle tendenze climatiche (gli scenari futuri proposti dai modelli numerici indicano incrementi termici estivi dell’ordine di 3÷6 °C entro il 2100 sulle Alpi), sarà probabile l’estinzione dei ghiacciai posti al di sotto dei 3500 metri”.

A rischio anche gli ecosistemi alpini e appenninici. “L'abbassamento della falda freatica e la contrazione del periodo di innevamento sono tra le cause dirette del collasso degli ecosistemi forestali e di quelli di alta quota degli Appennini, che non appaiono in grado di recuperare, a causa della rapidità dei cambiamenti climatici in corso e della indisponibilità di adeguate risorse genetiche a breve distanza” scrive Bruno Petriccione, del Corpo Forestale dello Stato. “Già oggi i primi sintomi di questi processi sono verificabili. Studi effettuati sulle Alpi Centrali dimostrano il progressivo spostamento in aree più elevate di specie vegetali di alta quota, mentre osservazioni effettuate sugli Appennini Centrali mostrano una tendenza all’adattamento degli ecosistemi di alta quota ad un aumento dell’aridità: in questi casi, la composizione specifica ha subito cambiamenti, negli ultimi dieci anni, dell’ordine del 10-20%, con preoccupanti sintomi di un processo di degenerazione ormai in atto (aumento delle specie vegetali più adattate all'aridità ed agli stress e parallela diminuzione di quelle più adattate a maggiore disponibilità idrica, basse temperature e maggiore innevamento). Nei prossimi 100 anni è da attendersi una progressiva disgregazione degli ecosistemi forestali, dei quali solo poche componenti potranno migrare in aree più adatte ai mutati scenari climatici, mentre la maggior parte di esse saranno destinate all’estinzione, almeno a livello locale”.

CLIMA E BIODIVERSITÀ

“In risposta al riscaldamento globale, le specie potranno essere in grado di adattarsi, oppure di spostarsi per rimanere alle stesse condizioni climatiche oppure saranno destinate all’estinzione. Stime globali indicano che il rischio di estinzione al 2050 dovuto ai cambiamenti climatici sarà compreso tra il 18% e il 35%, a seconda di cambiamenti climatici contenuti o elevati. Anche se questi studi fossero sbagliati di un ordine di grandezza e la perdita di specie fosse del 1,8-3,5% invece che del 18-35%, si avrebbe comunque la perdita di centinaia di migliaia di specie” scrivono Marino Gatto e Giulia Fiorese del Politecnico di Milano, Adriana Zingone della Stazione zoologica Dohrn di Napoli e Giulio De Leo dell'Università di Parma.

GLI EFFETTI SUL MAR MEDITERRANEO

“Il Mediterraneo negli ultimi anni è sempre costantemente sopra la media climatologia, in particolare negli ultimi dieci anni, ed alcuni bacini come il Mar Adriatico e il Mar Tirreno sta mostrando dei picchi d’anomalie di temperatura superficiale (la differenza tra la temperatura media osservata negli ultimi trenta-quaranta anni e quella del mese o del giorno preso in considerazione) durante il periodo estivo di oltre tre-quattro gradi” scrivono Vincenzo Artale dell'Enea e gli altri autori del capitolo. “L’analisi di dati raccolti durante il corso di numerose campagne oceanografiche nell’ultimo secolo ed oltre, mostrano un graduale aumento della temperatura delle acque superficiali, intermedie (la famosa acqua levantina) e profonde. Questo aumento della temperatura è accompagnato da un contemporaneo aumento della salinità: più l’acqua è calda maggiore è la sua capacità di diluire il sale.
Tuttavia la variabilità osservata della temperatura, salinità e dell’elevazione della superficie del Mediterraneo è abbastanza complicata. Una grande variabilità spaziale, dovuta al sommarsi di effetti diversi si somma a mutamenti delle tendenze (a volte non compresi) su scale di tempo relativamente brevi e variazioni delle caratteristiche idrologiche su lunghi tempi (probabilmente dovuti al riscaldamento globale) si sommano a eventi più rapidi e più ‘drammatici’ dal punto di vista del cambiamento della circolazione”.

Il riscaldamento globale sta cambiando anche la chimica e gli ecosistemi del Mediterraneo. A causa delle minori piogge e dal minor apporto di acqua fluviale, il Mediterraneo dovrebbe diventare più povero di nutrienti, anche se altri fenomeni potrebbero contrastare questa tendenza. Questo fenomeno, unito al maggior calore, sa già determinando una tropicalizzazione del bacino, con l'arrivo di specie abituate a climi più caldi.

SI ADATTERANNO LE CITTÀ ALL'AUMENTO DI TEMPERATURA?

Le città sono i luoghi più vulnerabili al cambiamento climatico. A rischio sono in particolare le zone costiere (per l'innalzamento del mare) con le sue infrastrutture (a partire dai porti). Il mutare di regime delle piogge avrà invece conseguenze sulle reti fognarie e i depuratori. Infine le ondate di calore (come quella orami storica del 2003), di cui è probabile una intensificazione nei prossimi decenni, colpiranno soprattutto la popolazione urbana più debole e anziana.
“Gli elementi raccolti mettono in luce l’urgenza di predisporre – come già fatto in molte realtà straniere – sia incisive politiche urbane tese al risparmio energetico (a livello di città, di quartiere, di singoli edifici) sia veri e propri piani di adattamento capaci di coinvolgere amministratori e cittadini in quella che si profila come la sfida più impegnativa che attende le realtà urbane nel XXI secolo” concludono gli urbanisti dell'Università di Roma autori di questa parte del Rapporto.

Anche il sistema dei trasporti – come notano Stefano Caserini del Politecnico di Milano e Roberta Pignatelli dell'Ispra di Roma – subirà delle conseguenze.
“L’intensificarsi dei cambiamenti climatici porterà a impatti sulle infrastrutture di trasporto, principalmente per la stabilità dei manufatti stradali, ferroviari o portuali o la tenuta di asfalti stradali e binari ferroviari, ma porterà anche a impatti più generali sulle dinamiche del settore, per la ripartizione modale in ambito urbano e per il trasporto marittimo” scrivono gli autori. “Ad esempio il mercato della navigazione commerciale nella zona del Mediterraneo risentirà della maggiore competitività delle nuove rotte che si apriranno dei decenni futuri attraverso il mare artico, rispetto alle rotte tradizionali fra l'Europa e l'Estremo Oriente, che attualmente passano dal Canale di Suez fino ai porti del Mediterraneo. Sono anche da considerare impatti indiretti, fra cui ad esempio le variazioni delle caratteristiche dispersive dell’atmosfera che possono rendere ancora più critico il contributo dei trasporti alla qualità dell’aria in ambito urbano”.

I COSTI DEL CLIMA CHE CAMBIA

“L’Italia si troverà ad affrontare dei costi a causa dei cambiamenti climatici” spiegano Carlo Carraro, Jacopo Crimi e Alessandra Sgobbi della Fondazione ENI Enrico Mattei. “Considerando gli effetti redistributivi tra i diversi settori economici italiani in uno scenario di innalzamento della temperatura di 0,93 °C nel 2050 rispetto al 2001, i settori che registrano una maggiore riduzione nella quantità fisica prodotta sono quelli dei servizi (da –0,71% a –0,87%), ed alcuni settori dell’energia (petrolio –1,88%, gas –3,72%). Questi ultimi riflettono un calo nella domanda mondiale di gas e petrolio, dovuto principalmente alle minori necessita di riscaldamento invernale, mentre aumenta la domanda e la produzione di energia elettrica (+1,8%), anche per il maggior utilizzo di condizionatori. In uno scenario in cui al cambiamento climatico si affianchi in Italia anche un aumento dei fenomeni di desertificazione, sarebbe ovviamente il settore agricolo a registrare un forte calo di produzione, soprattutto per quel che riguarda la produzione di grano (–1,45%), ma anche di frutta e verdura. Si osserva anche una significativa riduzione nella produzione di beni di investimento. Tuttavia, questo fenomeno e legato al calo degli investimenti, che avviene in Italia ma non in tutti i paesi del mondo.
Considerando dunque gli effetti redistributivi del cambiamento climatico a livello nazionale, questo potrebbe costare al sistema economico italiano tra lo 0,12 e lo 0,16% del PIL nel 2050, pari a una  riduzione del reddito nazionale di circa 20/30.000 milioni di euro, l'equivalente di un'importante manovra finanziaria. Cifre che nel 2100 potrebbero sestuplicare”.